Quando mi chiedono “Quanti anni avevi quando, per la prima volta, hai sentito di avere la passione per le navi?”, non so mai cosa rispondere. Ci penso e ci ripenso ma non riesco ad associare una data precisa, un anno ben definito, nel quale sia scoccata la scintilla. Probabilmente ero così piccolo da non riuscire neanche a capire la reale funzione di una nave, ma questo non m’importava.
Essenziale, per me, era solo starle a guardare. Con il tempo le cose sono cambiate e la mia fame di conoscenza ha preso il sopravvento. Appena un traghetto spuntava all’orizzonte, ripetevo perfettamente a memoria, al primo malcapitato nelle vicinanze, la sua lunghezza, larghezza, capienza di passeggeri e veicoli, metri lineari, velocità massima e collegamento marittimo nel quale operava. Gli unici strumenti a disposizione di un giovane autodidatta, della fine degli anni ‘90, erano i fantomatici dépliant, miei fidati compagni d’infanzia. La mia scrivania poteva vantarne tutte le edizioni, dalla versione estiva alla versione invernale, dalla versione vintage alla versione aggiornata.
Non riesco a definire una data di inizio, ma quando penso alle navi e alla mia passione, ho un’immagine ben fissa in mente. Mi rivedo in uno dei tanti pomeriggi (e quando dico tanti, intendo davvero tanti) trascorsi al porto di Olbia nel mese più frenetico dei collegamenti marittimi da/per la Sardegna: agosto. Mio zio lavorava come barista all’interno della stazione marittima dell’Isola Bianca e ogni pomeriggio o sera del mese di agosto, andavamo a trovarlo. È iniziata lì la magia.
Trascorrevo ore a osservare la frenesia del traffico marittimo estivo, rampe che si alzavano, rampe che si abbassavano, file infinite di persone alla base degli scalandroni.
Poi c’ero io, seduto su un marciapiede a bearmi di tale visione celestiale. Promettevo a me stesso in continuazione che un giorno sarei riuscito a lavorare a bordo. Non avevo una mansione precisa in mente. Ero ancora legato allo stereotipo del “chiamo marinaio chiunque lavori per mare”. E quando qualcuno mi chiedeva cosa sarei voluto diventare da grande, mentre tutti rispondevano scienziato, astronauta, poliziotto, io prontamente dichiaravo “capitano di navi”, senza avere nemmeno la minima idea di cosa effettivamente significasse.
Per neanche un mese all’anno, stavo a stretto contatto con le navi. Neanche un mese all’anno. Lo ripeto perché, orientativamente, quando un bambino si mostra interessato a qualcosa che vive a pieno e poi ne subisce un distacco netto, tende ad accantonarla in un cassetto. A me non è mai successo. Il mio paese natale dista un minimo di due ore dai principali porti della Sardegna e questo, di certo, non favoriva il germogliare della mia passione. Ma di sicuro non la faceva tramontare.
Se qualcuno dovesse chiedere a un mio compagno di classe, dai tempi della scuola dell’infanzia fino ad arrivare all’Università, quale fosse la mia passione, il mio obiettivo principale, la mia aspirazione, ma soprattutto il mio più grande sogno, non avrà dubbi e vi risponderà con estrema sicurezza: le navi.
Negli anni ho ossessionato la mia famiglia, i miei amici, i miei compagni di classe, colleghi universitari, con tutto ciò che riguarda il mondo navale e in tutto questo tempo sono stato ascoltato, sopportato e, talvolta, mandato al diavolo per questo. Ammetto di essermelo meritato. Ma la perseveranza ha dato i suoi frutti.
Non ho intrapreso gli studi nautici per svariati motivi e, ad oggi, non me ne pento assolutamente. Non è attraverso la carriera di Ufficiale di coperta o macchina che sarei voluto entrare a far parte di questo bizzarro mondo. Oggi, da quel porto dove il mio sogno è nato, parto per lavoro. Imbarco come Allievo Commissario e fondo le solide basi del mio arduo percorso. Ancora non so dove arriverò un giorno, ma di certo saprò di averci messo tutto me stesso e di aver sempre seguito i miei obiettivi. Perché chi insegue i propri sogni, non sbaglia mai.
Quando sono lontano da casa, proprio come oggi, posso provare malinconia per tutto ciò che ad ogni imbarco lascio a terra. Ma niente supererà mai la mia necessità innata di stare qui. La voglia di osservare, imparare e soprattutto crescere, tenendo sempre a mente quel che recita il motto della nave scuola Amerigo Vespucci “Non chi comincia, ma quel che persevera”.
Alla fine di questa storia, il ringraziamento è d’obbligo: alle due splendide stelle della mia famiglia, a chi mi ha aiutato, a chi ha creduto in me, a chi tutt’ora ci crede e a chi ci crederà in futuro. Ma un ringraziamento speciale va a mio zio, che, probabilmente inconsciamente, con i suoi pomeriggi al porto, ha dato via al grande sogno che oggi mi dà vita. E dalla prossima volta che qualcuno mi chiederà quando tutto è iniziato, risponderò “Chiedete a lui!”.